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DCA: testimonianza di un docente

by ChiaraSole Ciavatta

DCA: testimonianza di un docente… Io non ho vissuto in prima persona i DCA ma ho avuto modo di conoscerli dalla mia allieva Irene.

Tutto inizia due anni e mezzo fa, quando ancora so nulla eccetto i ricorrenti stereotipi su questa malattia.

Il mio incontro con Irene è in verità un non-incontro. È la vista di un banco vuoto in classe, di un’alunna che non ho mai conosciuto prima e che in classe ora non c’è, di lei conosco appena il suo nome e qualche informazione dai colleghi. Capisco subito che la situazione è grave.

Un ragazza di 15 anni non può stare lontana dalla vita, per me è un’ingiustizia grande, dovrebbe parlare in classe con le sue compagne, parlare di cose grandi e di cazzate, ma vivere la sua adolescenza, invece è in una lontana comunità isolata. Mi spiegano che non ce la fa a riprendere i contatti con i compagni. Sono preoccupato, e nei giorni in cui vedo il banco vuoto, non escludo il peggio.

Non sono credente e non posso dedicarle una preghiera, e un pensiero non credo che serva a molto, penso a cosa si possa fare e nel frattempo scrivo alla famiglia. Penso a come possa sentirsi, a soli 15 anni, con un male così incomprensibile, chissà quanto sarà spaventata? Chissà cosa pensa?

Le scrivo una lettera, che le daranno i genitori, con la mia richiesta di controllare che non mi sia sfuggita una parola di troppo. Qualche settimana dopo riceverò proprio da Irene una sua risposta.

Quello che sento è che, al di là della malattia, c’è una persona viva, con sogni, desideri, voglia di tornare alla vita. C’è la malattia, con tutta la sofferenza, e penso sia compito di ciascuno che si avvicina ad una persona che soffre di DCA avere il coraggio di guardarla, ma serve altrettanta forza per non perdere di vista la vita che ancora c’è, eccome, nella persona, perché quella vita, anche se sovrastata dalla malattia, c’è ancora.

Nei mesi seguenti chiedo alla famiglia il numero di Irene per scriverle, ancora una volta chiedo se devo fare attenzione a qualcosa, ma vengo rassicurato che il buon senso è sufficiente. A volte Irene racconta di sé, a volte non risponde, ma sono dell’idea di farle sentire che un pensiero per lei c’è sempre, le scrivo sempre ogni settimana, quella settimana che mi sembra un non troppo spesso e non troppo raramente.

È una lotta a cui Irene non può sottrarsi, non può delegare ad altri; forse qualcuno, più grande e più forte, vorrebbe farne un pezzo per lei, ma la deve fare lei in prima persona. Non è da sola, perché in quel periodo Irene fa le scelte più importanti: sceglie prima la vita, poi sceglie di farsi aiutare e infine di fidarsi. Non esistono parole per dire la stima che sempre avrò verso di lei e verso tutte le persone che ogni giorno compiono scelte come le sue.

Fino ad ora ho parlato di Irene.

Io sono Stefano, docente in una scuola superiore, e per tutto questo tempo mi sono sempre chiesto cosa potessi fare come docente. Non mi sento di dare risposte. Io ho fatto quello che pensavo fosse giusto fare momento per momento. Ho ascoltato senza mai giudicare. Quando qualche frase era davvero troppo, quando le sue parole diventavano distruttive, ho sentito di doverle dire “No, queste parole ti fanno male”, cercando al tempo stesso di farle sempre sentire che comunque in qualche modo intuivo cosa stava vivendo.

Intuire, non capire, perché probabilmente solo chi ha vissuto lo stesso male può capire.

Altre volte le ho scritto “Non ho parole da dirti, sentimi vicino, pensa ad una panchina e pensa che io sia seduto vicino a te, se vuoi parlarmi puoi farlo, se non vuoi, va bene anche il silenzio, ma io ci sono”. E sempre l’idea di farle sentire che c’era un pensiero per lei.

Ho fatto quello che ho pensato fosse giusto fare. Forse ho fatto anche degli errori. Anche se non ho attraversato questo stesso male, anche io ho avuto la mia convivenza, durata anni, con momenti altalenanti, di sofferenza psichica, ansia debilitante, crolli dell’umore, fortunatamente ora risolti, ma proprio questa parte del mio vissuto, in qualche maniera, mi ha permesso di intuire (non voglio dire “capire”) la sofferenza che vive chi giornalmente lotta con i DCA.

La storia di Irene ha un bel lieto fine, è tornata con noi, è ancora in pieno percorso, con alti e bassi, ma i rimandi degli specialisti sono incoraggianti, con i suoi tempi posso guardarla con tanta fiducia che si riprenderà pienamente la sua vita.

Ha tutta la mia stima. Lei non se ne rende conto ancora di quanto sia riuscita a fare, di quanta tenacia ci ha messo; le farebbe bene comprenderlo, visto che ancora troppe volte è così insicura, ma sono certo che arriverà questo momento, così come presto la malattia sarà solo passato.
La difficoltà principale è sempre stata fare la cosa giusta, senza scivolare in ruoli che non competono a noi, che in qualche modo a volte ci si sente trascinati a prendere per un momento.

Quello che posso testimoniare è che davvero la giornata del FIOCCHETTO LILLA deve prendere spazio, soprattutto nella cultura.

C’è purtroppo tanta ignoranza nella cultura generale, dove il DCA viene associato al banale desiderio di essere magra come una modella, ma anche poca preparazione nella scuola che poi diventa uno dei luoghi fondamentali per la crescita.

La tanta stima per Irene, si unisce ad altrettanta stima per ChiaraSole. La sua storia l’ho conosciuta solo attraverso il suo libro. Se accanto ad Irene ho potuto comprendere cos’è la malattia in molte sue fasi, da Chiara ho imparato che se ne può davvero uscire completamente, ritrovando il sorriso e la voglia di vita. Una delle frasi più belle di Chiara è “Nel tempo si impara a trasformare il dolore vissuto in amore per gli altri”. I momenti di condivisione, i post, i libri con le testimonianze sicuramente hanno un’importanza enorme nel portare allo scoperto questa tematica, troppo spesso lasciata in secondo piano.

Come ultima cosa mi sento di dire che spero che le testimonianze di chi ne è uscito possano essere sempre più presenti, penso che per chi è in piena lotta, con tutte le paure di non farcela, sia un conforto fortissimo sentire la voce di chi ha sofferto dolori simili e che li ha lasciati al proprio passato.

Ho usato troppe volte il termine “malattia”, è una parola difficile da usare, a volte serve per non evitare di nascondere la gravità, altre volte vorrei invece lasciarlo da parte perché la verità è che siamo tutti persone, ognuna con la sua bellezza, a volte manifesta, a volte latente, ma ognuno di noi ha tanto da essere e da dare a sé e agli altri.

E una delle bellezze più grandi è vedere la tenacia di chi lotta, di chi si è ripreso la vita e di chi sostiene ogni giorno questo percorso.

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