Bulimia, binge eating e anoressia sono malattie e sono gravissime! Riflessione e Testimonianza: Uno, due e tre, ora scrivo e non rileggo.
Dopo tanto tempo, eccomi qui: non lo avrei mai creduto possibile.
Da dove comincio? Panico!
Partiamo dalle cose, per così dire, più “semplici”: mi chiamo Veronica, sono di Rimini e ho 30 anni.
Ho iniziato il percorso di cura a “MondoSole”, quando non solo avevo toccato il fondo, bensì avevo scavato una buca, pronta a seppellirmici.
Era l’inizio di un’estate che avevo stabilito essere quella della “svolta”, “malata, ahimè.
Adrenalina palpabile, serate alcoliche in cui sono finita a letto con persone senza nemmeno ricordarmi come fossi arrivata sin lì (tipo quelle scene da film, in cui ti svegli affianco a qualcuno che a malapena sai chi sia).
L’Anoressia, fedele compagna, nella fase più acuta, quella fatta di un’illusione totale di controllo sul mio corpo, sui miei sentimenti, sui miei istinti, alternata da allenamenti estenuanti di boxe e di infinite corse che scandivano le mie giornate.
Mi sentivo invincibile, eppure non riuscivo a capire perché mi sentissi sprofondare: avevo successo, avevo una brillante carriera, costruita faticosamente, avevo finalmente il mio “nido”, un loft preso in affitto che mi aveva sottratto dalla morsa stringente di mia madre e dal confronto letale con mia sorella.
Io che credevo di meritarmi niente e di non avere il diritto di possedere qualcosa.
Tutto dentro di me tremava di instabilità: avevo solo l’instancabile compagnia di un’irrequietezza spasmodica che mi portava a cercare nell’altro il mio completamento e nel mio corpo una sembianza quasi disumana. Al posto del seno avevo pettorali, alla mia pancia avevo sostituito addominali scolpiti e alle braccia bicipiti d’amianto.
Interminabili sessioni davanti allo specchio, il mio caro nemico, a misurami, controllando ogni centimetro di me, per cercare di strapparmi via la pelle, lasciandomi lividi. Ripetute sessioni di pesate, dieci, cento, mille volte al giorno, prima e dopo qualsiasi minima azione o movimento dei miei pensieri.
Il mio sguardo era perso, il mio sorriso, beh, non saprei dire dove lo avessi dimenticato, chissà poi quanti anni prima.
Penso e ripenso, ripercorro il mio passato: buio totale.
Ero certa di averlo cancellato e con lui l’altra me. Non volevo per nulla al mondo ricostruirlo, io ero diventata quella e non volevo far tornare a galla il passato: volevo farlo scomparire, insieme a me.
Dopo l’ennesimo scontro con un caro amico che mi sbatteva in faccia la triste realtà di un me malata, decido di chiedere aiuto.
Conosco Chiara, il sole, quello quasi bruciante di agosto, e Matteo, il cielo limpido e azzurro da cui si riflette il mare.
Ricordo un dolore lancinante, di chi si affaccia a modalità così pacate, ma decise di volermi aiutare: inizia un lavoro basato sulla fiducia, accoglienza e dialogo.
Lavoriamo intensamente per scoprire l’origine del mio malessere (che non coincide necessariamente con una data di inizio e ad un unico evento preciso) ed il perché che mi portava a definirmi come “una ragazza con una polpetta conficcata sulla bocca dello stomaco che non va mai né su, né giù”.
Imparo a conoscere le mie compagne di percorso, una rete di salvataggio che ti fa sentire al sicuro, nonostante la tempesta interiore.
Decido di abbandonarmi e di affidarmi.
Il mio “Benvenuta a MondoSole, Veronica” arriva dopo tante resistenze a lasciar fluire le emozioni, tanto quelle brutte, quanto di più quelle belle del sentirsi parte di un qualcosa dove poter essere solo me stessa.
Cominciano ad affiorare i ricordi, quelli emotivi.
Una vita fatta di doveri, di comportamenti sempre così inquadrati e rigidi, mal indossati da una bambina, praticamente mai esistita: io dovevo essere adulta. Tutto intorno a me lo richiedeva, anzi lo pretendeva.
Sono in mezzo ad ogni litigata violenta tra i miei genitori, io che faccio da scudo a mamma durante le percosse di mio papà, io che chiamo i soccorsi, io con mamma in questura a denunciare papà per poi ritirare tutto (“Che sai, lo faccio per te, Veronica, in fondo è tuo padre”), io con lei dal medico a constatare le lesioni, io a sorreggere e sostenere mamma durante il calvario terribile della chemioterapia.
Io con mamma sempre: perfino nel letto tra lei e papà, per sorvegliare su di lei.
Ricordo che mangiavo sempre, in continuazione e di nascosto, per tappare quel dolore, per non sentire il vuoto che lascia la sofferenza.
Ricordo una me che era sempre “troppo” agli occhi dei miei famigliari che mi incitavano a dimagrire e a fare sport, tra una pesata e l’altra con lo sguardo.
Io ero una ballerina, dicevo: avevo il mio sport. Tutti ridevano.
Anche a danza classica ero “troppo”, troppo grassa, troppo inadeguata.
Mi nascondevo nelle ultime file, non volevo guardarmi allo specchio: mi bastava sentire le mie cosce strisciare e la mia carne traballare.
La situazione economica a casa era un disastro, ci impediva di vivere serenamente.
I miei genitori avevano accumulato debiti su debiti per un’attività commerciale. Si viveva con l’angoscia degli ufficiali giudiziari che ci venissero a portare via tutto.
Si mangiava poco e sempre gli stessi cibi: pane, patate, cipolla e pomodori.
E la carne? Quella era solo per mia sorella che era piccola (n.d.r. ha nove anni in meno di me) e doveva crescere sana.
Indossavo vestiti maschili, quelli riciclati da mio cugino e mi sentivo in tutto e per tutto un maschio: la mia immagine nello specchio mi restituiva una fotografia ingannevole di me con forme falliche e così mascolina.
Nonostante la penuria, mi sottopongo a diete su diete, ma senza buoni risultati.
Qualche chilo perso e qualche tempo dopo ne prendevo il doppio: guance sempre paffute e pancia a scoppiare, fino a sentirmi intontita.
Il cibo era la mia unica consolazione. Non mi chiedeva nulla in cambio e non dovevo essere nessuno di speciale per meritarmelo.
Parlavo poco, non mi lamentavo mai. Esprimere le emozioni era impossibile.
Avevo trovato il mio unico territorio di eccellenza: la scuola. Ero in gara con me stessa per raggiungere risultati sempre migliori e livelli ogni volta superiori. Dovevo essere semplicemente LA migliore e diversa da tutti gli altri. Io non volevo essere considerata “normale”.
Se a scuola eccellevo, a casa annegavo in acque torbide e scure: il rapporto con mio padre era pressoché nullo, ero terrorizzata da lui, non c’era dialogo e a stento riuscivo a guardarlo in volto.
Odiavo mia sorella che negli scatti di ira totale menavo brutalmente e offendevo: ero certa mi avesse rubato la scena di figlia unica e credevo fermamente fosse la preferita di casa, soprattutto nel cuore di mio padre.
Mia madre? Ah, l’amavo alla follia! Eravamo l’estensione l’una dell’altra: facevo di tutto per alimentare la mia compagna simbiotica, per assecondarla e farle sentire che io c’ero ed ero solo per lei.
Avrei dato qualsiasi cosa per sentirmi dire che ero brava e che valevo, ma nonostante mia mamma mi adulasse costantemente, per me non era abbastanza e non le credevo.
Pensavo fosse dettato dal fatto che le facessi pena: una coccola per alleviare una figlia grassottella e così poco femminile.
I miei genitori si separano: se io ero contenta (eravamo libere dal terrore, finalmente!), mia sorella soffriva tantissimo e mal soffriva mia mamma, responsabile della odiata scelta.
Nei vari traslochi tutti i miei effetti personali rimanevano negli scatoloni: non volevo affezionarmi a niente e a nessuno. Non ne avevo il diritto. Non avevo il diritto di sentire un posto “casa”.
Dopo l’ennesima dieta e dopo un calo ponderale importante mi diagnosticano un’ernia, dovuta allo sbalzo continuo di peso in età di sviluppo.
Indosso un busto che diventa il mio fedele amico: “Svetoslavo” lo chiamavo io. Era come un amico maschio, l’unico maschio che potesse avvicinarsi tanto a me.
Mi proteggeva da tutti: era la mia armatura da supereroe. Nessuno poteva toccarmi, in tutti i sensi.
Da lì, l’inizio dell’altra faccia della malattia: la restrizione.
Cominciano gli anni degli amori e sempre più frequenti digiuni, alternati da momenti compulsivi di ingurgito.
Mi innamoro di A., un collega sposato con una ragazza mia omonima: segno del destino, penso. Dovevamo proprio incontrarci. Ero io la Veronica giusta per lui, quella della sua vita.
Scoppia il nostro amore, malato e clandestino.
Mi sentivo viva solo durante i nostri brevi incontri segreti, lo volevo ad ogni costo, ma ogni volta che si figurava un futuro tangibile io fuggivo lontana.
In fondo non ero certa di volerlo veramente, io che non conoscevo il senso di appartenenza.
Ci prendiamo e ci lasciamo, in continuazione, fino a quando lui mi dice addio per accogliere un figlio in arrivo.
Nelle notti insonni di pianto e angoscia, corro a letto con mamma, l’unica, sempre e solo lei, in grado di salvarmi.
Lavoro instancabilmente, praticamente tutti i giorni per tantissime ore: volevo contribuire economicamente al sostentamento della mia famiglia (mamma e sorella). L’ansia e l’angoscia mi divoravano.
Qualche anno più tardi conosco G. che ben presto diventa la mia nuova simbiosi, mal digerita da mia madre, ora spodestata del trono.
Do tutta me stessa, mi abnego totalmente e affondo nella nostra relazione ed in lui.
Lo seguo perfino in America (era il 2012) dove ci trasferiamo per iniziare una nuova vita: io che non avrei mai lasciato sole mia mamma e mia sorella (senza di me non ce l’avrebbero fatta, ne ero certa), mi trasferisco dall’altra parte del mondo illudendomi di mettere distanza tra me e la mia famiglia che mi soffocava così tanto.
Avrei lasciato a casa anche il mio rapporto di odio e amore per il cibo, pensavo, avrei ricominciato da capo, speravo.
Il bisogno di distruzione tra noi era praticamente totalizzante: a nessuno dei due interessava veramente la felicità dell’altro, quanto invece era forte il bisogno di possedersi vicendevolmente per affermarsi.
Io potevo così confermare di non valere niente se non al suo fianco, lui poteva convalidare il fatto di potere tutto su di me.
Viviamo a Brooklyn in una sorta di “comune” insieme agli altri componenti della band.
Di per sé nulla di male, se non fosse che uno dei membri era proprio il “mio” A., anche lui espatriato con moglie e figlio al seguito (l’ennesimo segno del destino per farci ritrovare, lo sapevo!).
Ricordo litigate consumanti con G. per fargli cambiare idea sulla scelta di una convivenza così schiacciante per me (perché lui sapeva tutto, ovviamente): ma niente da fare. Anche questa volta aveva vinto lui.
Il sesso tra di noi era praticamente un optional e quando avevamo rapporti, oltre ad essere molto dolorosi per me, mi vedevano concentrata solo sul suo piacere e rapita dal mio corpo, dalle ossa, dal bisogno di cercare la magrezza (tradotto: di sentirmi adeguata nel concedere performance da manuale).
Iniziano lunghe e preoccupanti fasi di digiuno, lavoro oltre anche quattordici ore al giorno, ma niente mi sottrae al confronto con l’altra V. della casa, la mia rivale.
Mi dimentico di G., lo desidero sempre meno, fino a desiderare solo di sentirmi protetta nel suo abbraccio nel letto, proprio come quello di mia mamma.
Tutta me stessa era protesa verso A., l’unico del mio cuore.
La mia autodistruzione arriva a farmi vivere angosce e continue ossessioni in tutto ciò che faccio: cammino per strada con l’ansia di essere seguita, piango praticamente tutto il giorno, non sono in grado di svolgere il mio lavoro di tata (chiedevo a G. di accompagnarmi e di trascorrere con me le ore di impiego, avevo il terrore di distruggere anche il neonato che badavo), odio New York, odio il cibo, odio me stessa, odio G., il mio carnefice. Non mi bastava più alimentarmi di noi due.
In un barlume di lucidità decido di tornare a casa: all’aeroporto la mia famiglia ad aspettarmi.
Mi vedono e iniziano a piangere: la commozione, pensavo io.
Invece no, le loro lacrime erano dettate dallo sconvolgimento della nuova compagna che era atterrata insieme a me: l’anoressia.
La cosa che mi faceva più male, ricordo, era il fatto che potessero comprendere il mio dolore e la mia ricerca spasmodica di attenzioni solo di fronte a quell’impatto scioccante e allo stesso tempo provavo un godimento folle perché finalmente tutti potevano vedere il mostro che mi cresceva dentro.
Del resto era impossibile comunicare la mia sofferenza a parole.
Il binge eating e l’obesità di tutti gli anni passati erano niente ai loro occhi, mi indignavo: ero solo una bambina cicciona che amava mangiare.
Del resto, nemmeno io ero consapevole di cosa significasse realmente avere bisogno di tutto quel cibo per sopravvivere, né tanto meno sapevo il perché di quei raptus così animaleschi nel procacciarmelo.
Il mio corpo, così informe, era un’esigenza di nascondermi e di separarmi dagli altri: essendo ripugnante, pensavo, nessuno mi avrebbe voluta.
Solo dopo essermi immersa nella me più profonda e aver guardato in faccia il lato più oscuro di me, posso affermare che io ero malata.
Bulimia, binge eating e anoressia sono malattie e sono gravissime!
Coprono il dolore, la sofferenza e tutte le sfumature delle emozioni, fino a perdere il contatto con la realtà e con sé stessi. Distolgono l’attenzione da ciò che veramente “pesa” dentro il cuore, spostando il problema su una questione puramente di come apparire e dover essere agli occhi degli altri, ma soprattutto rispetto ad un proprio ideale, mai raggiungibile e in continua mutazione per ottenere di più e ancora e ancora, fino a distruggersi.
Queste malattie ti tolgono tutto, compresa la voglia di desiderare un futuro migliore. Tutto quello che reputi essere il tuo carattere, molto spesso è in realtà legato alle leggi della malattia alle quali sembra impossibile sfuggire.
Ma non è così!
Solo ora, dopo anni di intenso lavoro, posso gridare a squarciagola che si può guarire! Per davvero!
È proprio grazie a tutto ciò che sono stata che ho potuto trovare me stessa.
Grazie all’aiuto di splendide persone che mi hanno aiutato a soffiare nella mia nebbia affermo che si può essere felici. Questa è la più grande promessa mantenuta che MondoSole mi ha regalato e che voglio trasferire a te che stai leggendo.
Il percorso sei tu, ogni giorno. Non esiste nessun cavaliere che viene a salvare la donzella in pericolo, che sciocchezze!
Il percorso è il dialogo profondo che instauri con le tue emozioni e sentimenti. Sono le scelte che rinnovi o riformuli in funzione del tuo benessere (che a volte non coincide con le credenze preconfezionate), è amore per la vita, nonostante le difficoltà, è mettersi in gioco costantemente, è fare pace con i lati più spigolosi di sé e riderci su, è coccolare il lato più infantile che vive in noi, è sorridere allo specchio facendo una boccaccia, è scegliere amici che possano dirti anche amare verità perché ti vogliono bene, è indossare un rossetto rosso anche quando fuori piove.
Il percorso è un lavoro costante, fatto di fiducia verso l’altro e apertura verso il nuovo: e tutto questo, caro tu che leggi, sappi che non finisce mai, o meglio, il percorso di cura finisce, ma IL PERCORSO DI CRESCITA DELLA VITA MAI.
Grazie, Chiara, per quella porta aperta, per la tua mano sempre tesa, la tua comprensione e il tuo infinito amore.
Grazie, Matteo, per il tuo illuminante mondo così immensamente ricco ed il tuo sterminato sapere che hai cercato di infondere e tramandare in ognuna di noi.
Grazie, Fiorella, per la passione, il tuo sorriso, la gioia e la tua estrema delicatezza che ci riservi.
Grazie, Even, per la tua sfrontata simpatia e per esserti ricavato un posto tra noi, beato tra le donne!
E grazie a voi, meravigliose compagne di percorso, perché siete tutto: una parte di noi ci apparterrà sempre.
Per sempre. Grazie.
Veronica