Ciao, sono Marilena.
Una giovane donna alla ricerca della libertà!
Ti racconterò la mia storia.
Comincerò dall’infanzia, da quando ero tanto piccola.
Amavo volteggiare su me stessa, essere guardata dalla mia famiglia: mio padre, mia madre, le mie due sorelle maggiori.
Ero una meravigliosa bambina libera.
Quando avevo quattro anni mia madre è stata operata allo stomaco a causa di un tumore.
Ricordo le notti passate nel lettone con mio padre. Gli chiedevo ogni sera: << papà quando torna mamma?>> E lui: << anche questa notte dormirà in ufficio>>.
Contestando mi addormentavo.
Ero una bambina dai mille perché, che stava crescendo per alcuni versi troppo in fretta.
Amavo profondamente mio padre, come ogni bambina a quell’età. Era mio padre, l’uomo in cui avevo riposto tutta la mia fiducia. Era il mio signore.
1996. Mia sorella G. viene operata al ginocchio a causa di un tumore. Aveva 13 anni. Ero già a quei tempi abituata a stare con mia nonna. La mia adorata nonnina.
Ho dormito tante notti con lei e mio nonno.
Lui dormiva in un lettino ed io e mia nonna insieme nel lettone.
Prima di entrarvi mi faceva riscaldare vicino la stufetta e poi, dritto nel lettone.
Inizialmente lo stare con loro mi divertiva, era un gioco. Poi col passare del tempo non mi divertivo più!
Dov’erano i miei genitori?
Sentivo la mancanza dello stare a casa, la mia!
Sono andati diverse volte a Bologna per mia sorella ed io sono stata tante, troppe volte con i miei nonni.
A 3 anni ho cominciato l’asilo. Andavo all’asilo comunale, vicino casa di mia zia.
Era tutto strategico. Sarebbe passata a prendermi lei a fine giornata, dato che faceva l’insegnante di scuola elementare.
Ho diversi ricordi a casa di mia zia.
Innanzitutto una foto. Avevo 4 anni.
Spegnevo le candeline.
Perché a casa di mia zia e non la mia?
Non mi piaceva state a casa sua.
Aveva un cattivo odore di cibo.
Era ai fornelli tutto il tempo che trascorreva a casa.
Aveva un modo di cucinare molto grossolano. Buttava su una gran quantità di cose. Ciò che contava era l’abbondanza.
Ricordo quei piatti principalmente brodosi ricchi di verdure grosse. Tagliate alla buona. Mi facevano schifo.
Non parliamo di quando mangiavano carne. Mio zio portava a casa delle gran quantità di carne.
Coniglio, agnello, ciò che più ricordo con disgusto erano le teste d’ agnello comprensive di cervello e occhi. Lui mangiava tutto questo.
Ricordo ancora il suo vocione quando mi diceva. << mangia, mangia, mangia>> Che schifo!
Ho sempre pensato che il mio essere vegetariana fosse legato anche a questi ricordi.
Mia zia aveva ha tre figli. F., N., E.
Ero sballottata a destra e manca tra zia e nonna. E casa mia?
Mio padre lavorava come autista , era in giro per l’Italia.
Mia madre lavorava all’ASL.
Le mie sorelle maggiori credo fossero già autosufficienti quando io ero in giro per parenti.
Primo giorno di scuola elementare.
Terribile! Ancora oggi sono vive in me quelle medesime sensazioni che ho provato quel giorno.
Mia madre mi aveva accompagnata a scuola. Lasciata alla bidella, che conosceva.
Lei doveva andare a lavoro.
Seguivo S. mentre puliva le classi.
Era l’inizio di una nuova esperienza.
Avevo nel cuore un’infinita tristezza, angoscia. Mia madre non c’era. Mi aveva nuovamente lasciata in un posto che non sentivo mio. Come a casa di mia zia. Come a casa di mia nonna.
Dov’erano i miei giochi in tutti questi luoghi? Il mio spazio?
S. mi ha portata in classe. Ero stata una delle prime ad arrivare. Continuavano a giungere bambini e soprattutto insieme a loro, i genitori. Ad ogni ingresso mi si stringeva il cuore. Mia madre dov’era?
Mi sentivo così piccola.
Ero così piccola con delle emozioni tanto più grandi di me.
Mi sovrastavano. La tristezza sconfinava. Piangevo. Piangevo. Piangevo.
Ecco entrare un volto a me familiare. C’era una mia zia di secondo grado con il figlio della mia stessa età.
Mia madre precedentemente aveva chiesto alla cugina di darmi un’occhiata.
Era ufficialmente cominciato il giorno più angosciante dell’anno.
Ogni primo giorno di scuola da li in poi ho sempre pianto. Avevo sempre la medesima sensazione di abbandono, angoscia nel cuore. È durato fino al primo giorno di università e continua il primo giorno di un nuovo lavoro o dello stesso, dopo le ferie, la malattia etc.
Ho abitato in molte case. Messercola. Forchia. Santa Maria a vico. Rimini.
Ho il ricordo che sin da piccola non mi sentivo al sicuro tra le mura di casa se non in compagnia di qualcuno.
Mi raccontavano dell’uomo nero, che sarebbe venuto a prendermi se solo non avessi fatto ciò che mi veniva detto.
Ho cominciato a vedere delle ombre in giro e a legarle al fatidico uomo nero.
Mi ricordo me bambina sul letto, con gli occhietti aperti e le ombre sotto al soffitto e sulle pareti. Mi alzavo impaurita e dicevo di non aver più sonno. In realtà avevo solo tanta paura.
Desideravo protezione da chi mi aveva messo al mondo.
Volevo qualcuno che mi rassicurasse.
Quelle mura di casa, erano intrise di ombre di violenza, psicologica e fisica ed io cominciavo a proiettare tutto fuori da me per il terrore di vedere la realtà!
Ho abitato in questa casa per 10 anni e poi è stata la volta di Forchia.
Trascorrevo le mie giornate tra casa di mia nonna e casa di mia zia. Adoravo mia nonna eppure lei non poteva essere mia madre. Chi mi aveva partorito era un ‘altra donna.
Ero in perenne attesa. Vivevo nell’attesa di mia madre <arrivo tra poco> mi diceva, passavano ore intere.
Ero dietro la porta ad aspettarla seduta su una sedia di legno
Guardavo dal vetro le macchine che passavano, conoscevo perfettamente il rumore della sua, sentivo quando inseriva il freno a mano, chiamavo mia nonna dicendole che mia madre era arrivata.
Ogni giorno era così. Anni interi sono stati così.
È per cercare di non sentire quella mancanza che ho cominciato a mettere in atto riti che mi davano l’illusione del controllo.
Mia madre era terribilmente controllante.
Si poneva rispetto all’altro, come se lo stesso non avesse capacità di ragionare, sentire bisogni esprimere desideri.
Pensandoci c’erano tutte le basi per la costituzione di un rapporto simbiotico.
Avevo 6 anni, era domenica. Mia zia era a pranzo da mia nonna. Era sempre lì ogni domenica.
Io e mia madre eravamo passate a fare un saluto.
C’era tutta la famiglia di mia zia.
Mio cugino N. aveva 12 anni. Mi aveva chiamato per andare in camera da letto di mia nonna. Voleva farmi vedere una cosa.
Era girato dandomi le spalle, aveva cominciato a masturbarsi.
Diceva: 《guarda! guarda! Faccio uscire del latte 》. Io fin da allora non avevo mai visto un pene. Era proibito! Nella mia famiglia c’era una grandissima ristrettezza mentale. Tutto quanto riguardava la sessualità non doveva essere comunicato.
Davanti a quella visione mi sono trovata a vivere sensazioni nuove e una grandissima paura.
Credo sia stata la prima volta in cui mi sono eccitata, ero terribilmente confusa, era tutto troppo.
Cosa stava facendo mio cugino? Come si chiamava? Cos’era quel liquido? Perché lo aveva fatto davanti a me?
Chiamai mia mamma e mia zia.
Eravamo finiti sul letto. Mi ricordo di averle chiamate ancora. E poi da lì credo di essere scappata via e di non aver detto nulla a nessuno.
Avevo un vestitino rosa. Lo aveva cucito mia nonna. Ero davvero molto piccola.
Questo episodio mi ha segnato tanto. È da definirsi abuso. Lo definisco tale.
Era per me una visione abnorme era troppo rispetto alla mia piccola età.
Ho un altro ricordo legato a quell’età. Non so se coincide con i giorni successivi all’abuso.
Mio padre quando ero piccola era lui a lavarmi, a farmi il bagnetto.
Ho ancora impressa la scena in cui lui mi toccava le parti intime per lavarmi ed io in quel momento ho provato una tremenda vergogna e fastidio. Non volevo mi toccasse più! Eppure fino al giorno prima era tutto normale.
In quel preciso istante si era tolto un velo.
Mio padre… mio padre. Uomo amato ed odiato profondamente.
Era il Signore della mia vita. Colui che poteva decidere della mia vita e morte.
Colui il quale mi faceva vivere e morire dentro continuamente.
Mio padre era un uomo di poche parole e di tanti ordini.
Era un dittatore spietato. Dettava leggi senza spiegare il perché delle stesse.
Poteva tutto.
Ho vissuto un’infanzia ricca di continue violenze psicologiche e fisiche.
Davanti a questo io impuntavo i piedi urlavo: 《 voglio dialogo !!!》
Desideravo terribilmente di essere al suo posto, lo bramavo con tutta me stessa.
Lo desideravo con la stessa intensità di violenza che mi schiacciava, soffocava, imprigionava.
Con la stessa violenza che lui usava con me.
Quanto avrei voluto veramente gridare basta! Quanto avrei voluto dirgli lasciami libera di vivere.
Ero vittima. Ero una bambina vittima di violenza.
Ero terrorizzata da mio padre. Era il mio carnefice eppure il mio sovrano.
Povera piccola bambina.
Povera piccola Marilena.
Povera piccola Me.
Quando avevo 10 anni, ci siamo trasferiti in un’altra casa.
E lì è cominciato il film dell’orrore.
In questa casa ho da sempre percepito una strana energia. Avvalorata da mia sorella che aveva avuto da altre fonti una conferma che in quella casa vi fosse uno spirito.
Cominciarono le notti insonni, ero terrorizzata. Chiedevo a Imma se quell’entità ci potesse toccare, lei mi rispose di si.
Avevo terribilmente paura. Mio padre e mia sorella G. non credevano a queste cose. Io ero maggiormente influenzabile data la tenera età e i precedenti trascorsi.
Mi avevano dato una sorta di amuleto. Era un quadretto di stoffa con dentro scritta una preghiera, ed un rosario in metallo.
Non volevo stare a casa da sola mai. Nel caso in cui mia madre non vi fosse stata la aspettavo fuori al balcone.
Due furono gli episodi che mi toccarono di più. Nel primo, ero a fare le pulizie e improvvisamente mi si spense la radio e ci accese la televisione.
Continuai senza dare troppo peso ma era solo l’inizio di grandi suggestioni e condizionamenti.
Nel secondo episodio la TV della sala era improvvisamente impazzita. Cambiava continuamente canale e il volume era altissimo.
In quel momento sentii qualcosa che mi attraversò. Non volevo più tornare in quella casa.
Suggestione? Realtà?
Ciò che era certo era la paura che mi portavo dentro.
Anno 2003 – 15 ottobre.
Muore mio nonno materno.
Anno 2003 – 16 ottobre prima notte a casa di mia nonna dopo la morte del marito.
Decido a 13 anni di andare a dormire e stare per sempre con mia nonna.
D’altronde già ci stavo spesso con lei.
Credevo di avere scelto volontariamente e consciamente.
Perché la mia famiglia non si è opposta a questa mia scelta? Per comodo? Inconsapevolezza? leggerezza? Chissà…
Mia nonna era adorabile. Mi ha insegnato tante cose: cucire, cucinare, con lei ero una piccola donna adulta, cresciuta per certi versi troppo presto.
Ero una ragazzina all’apparenza decisa sulle cose, determinata. Allora i miei ideali di riferimento erano mio padre e mia sorella G.
Due persone con un’apparente forte personalità.
Litigavano spesso. Mia sorella era troppo irriverente per mio padre e lui si sentiva non rispettato e cominciava la lotta.
Quante urla ho sentito. Facce che esprimevano rabbia, orgoglio sembrava stessero parlando in realtà non c’era comunicazione nessuno ascoltava nessuno. Era quella la comunicazione in casa! Solo quella. Scarna. Quasi inesistente.
Sebbene ciò, io urlavo continuamente:<< VOGLIO DIALOGO!>>
È stato in quegli anni e ancora prima che ho messo le basi della mia illusione di controllo.
Avevo bisogno di inscatolare ogni cosa. Schematizzare. Ingabbiare ogni emozione per avere l’illusione di poterla controllare. Perché ero terribilmente impotente.
Non ero libera di esprimermi.
Ero castrata continuamente.
Avevo bisogno di sopravvivere. Sarei morta sotto quel regime di repressione.
Ho creato la mia realtà.
Ho cercato con gli strumenti che può avere una bambina di difendermi. Non era concepibile che tutto quel dolore era causato da comportamenti messi in atto da mia madre e mio padre.
Quella castrazione, quella mancanza d’ossigeno non poteva appartenere a conseguenze di atteggiamenti messi in atto di chi aveva scelto di mettermi al mondo.
Ho spostato completamente tutto su di me. Io sono cattiva, io non vado bene.
Io cerco troppo. Io…io…io… Credere di poter controllare qualcosa, mi faceva illudere che a governare gli eventi fossi io.
Avrei fatto di tutto pur di non sentire l’impotenza.
Ho fatto di tutto pur di non sentirla.
Ho sviluppato una grandissima illusione di controllo.
Grande quanto era grande la violenza psicologica che ho subito.
Ho trascorso con mia nonna all’incirca 5 anni.
Poi cominciava a mancarmi la mia famiglia.
Avevo per anni girovagato. Per anni avevo atteso il ritorno di mia madre, ogni giorno la voragine diventava sempre più grande, ed io mi avvicinavo sempre più al burrone.
Dall’esterno non traspariva il mio dolore.
Apparivo una giovanissima donna, sicuramente più grande dell’età anagrafica per i discorsi che facevo.
Amavo comunicare a me stessa ciò che era giusto, non ciò che era meglio o avevo desiderio di fare.
All’inizio del terzo superiore, ero in crisi per la scuola.
Non volevo più andarci!
Avevo il terrore di non farcela.
Gli insegnanti avevano presentato un bollettino per nulla facile da accogliere.
< È stato nello stesso periodo in cui cominciavo a sentire la mancanza della mia famiglia.
Volevo tornare a casa mia, quella che non avevo mai vissuto.
Questi anni procedono con difficoltà ed incertezza, continuo ad andare a scuola, continuo a desiderare la mia famiglia.
Continuava il cibo ad avere un valore compensativo per non sentire il vuoto.
Non ricordo delle vere e proprie abbuffate, ma la strada che avevo intrapreso era quella.
Sono tornata a casa mia con un gran senso di colpa, quello di non aver portato avanti la mia decisione di stare con mia nonna.
Si organizzavano per andare a dormire a casa sua mia mamma e sua sorella.
Non c’erano dei turni fissi. Era tutto incasinato.
Insomma direi che avevo fatto abbastanza comodo a tutti per diversi anni.
Finito il liceo ho proseguito con la scuola di oreficeria.
Continuavano le diete e poi le abbuffate e poi le diete e le abbuffate. Ero sempre più sulla strada della distruzione. C’era qualcosa che non capivo. C’era qualcosa che non andava. C’era qualcosa dentro di me che proiettavo fuori da me che mi logorava.
Finita la scuola ho fatto un anno di esperienza in un laboratorio orafo a Portici. Il sintomo peggiorava.
Ho conosciuto don S. Divenuto poi mia guida spirituale. Era venuto nella parrocchia a cui appartenevo. Ho partecipato al primo gruppo giovani organizzato da lui. Ero entusiasta di avere un sacerdote giovane come guida. Lo avevo desiderato da sempre. Ho riposto in quest’ uomo tanto, troppo.
Ho ricercato in lui il padre misericordioso, colui che mi avrebbe accolto finalmente.
Ho cercato in lui il compagno perfetto, con il quale avere un rapporto profondo ma senza intimità sessuale.
Ho cercato in lui il risarcimento di una vita.
Lui non era in realtà nulla di tutto ciò.
…. E con Dio….
E con Dio è stata una storia travagliata così come lo ero io.
Ero reduce di una battaglia quotidiana, in cui alla fine ero sempre io a perdere.
Dio per me era giudice.
Dio per me era padrone.
Dio per me era rifugio.
Gli ho attaccato la maschera di mio padre, del mio padrone.
Ho pensato per parecchi mesi che Dio mi volesse tutta per lui. Pensavo che mi chiamasse ad una consacrazione totale.
Ero ancora più in confusione.
Ancora più combattuta tra ciò che è bene e male.
Tra ciò che desideravo e dovevo.
Quanto scrivevo, quanto pregavo.
Quanto cercavo da quel Dio ciò che non avevo ricevuto e quanto ancora di più ricercavo da Dio ciò che avevo avuto.
Punizione e Giudizio.
Sprofondavo sempre più nell’abbraccio della malattia era lei l’unica a “comprendermi”.
Era inizialmente un tenero abbraccio di godimento poi diventava così stretto da farmi soffocare.
Ingurgitavo cibo per riempire il vuoto.
Ingurgitavo cibo per non pensare.
Ingurgitavo cibo per punirmi.
Ingurgitavo cibo per godere.
Ingurgitavo cibo per continuare a vivere quella devastazione dentro
Ingurgitavo cibo perché era meglio tutto dentro che fuori.
Mamma, papà vado a Rimini.
Ho sempre cercato un modo per uscirne.
Credevo inizialmente fosse un dolore legato al fatto che non mi piacevo esteticamente e sono andata da una due, tre, quattro nutrizioniste.
Ho capito che non era quello.
Ho fatto un percorso psicologico per quasi 2 anni.
Nessuno mai mi ha detto che ero malata di disturbi alimentari. Io lo sapevo fin dalle medie. Io ragazzina con molti meno strumenti di un medico lo sapevo e i medici non mi dicevano niente.
Terribile a pensarci.
Dopo anni di sintomo ho continuato a cercare. Ho trovato MondoSole.
Mamma, papà mi trasferisco a Rimini!
Dopo un colloquio con Chiara mi sono trasferita immediatamente.
Ho trovato in un giorno la casa dove avrei affittato una stanza.
Ero determinata a fuggire via, forse da me stessa o forse no.
Forse dalle dinamiche in cui ero cresciuta.
Forse dal contesto culturale in cui ero immersa.
Non sapevo precisamente nulla, ma volevo iniziare un vero percorso verso la guarigione.
Ho finalmente trovato il nome della mia malattia: binge eating.
Mangiavo fino a stare male.
A sentirmi completamente piena, tenendo tutto senza vomito.
Avevo promesso a me stessa, posto nuovo, vita nuova.
Nell’ottica della malattia sarei andata a correre tutti i giorni, mi sarei rimessa in forma. Avrei riavuto il controllo che avevo completamente perso. Ero giunta nel posto sbagliato per continuare a sopravvivere nella malattia, ma in quello giusto per poter guarire e cominciare a vivere.
Il mio percorso è cominciato dal giorno in cui mi sono seduta “sui divanetti” che han visto passare tantissime persone che oggi sono guarite e VIVONO, affrontando tutto quanto la vita ha in serbo.
Ho cominciato a parlare e parlare e ancora parlare.
Parlare della mia famiglia.
Parlare di quello che vivevo.
Parlare di ciò che avevo vissuto.
La parola è il primo mezzo di comunicazione in un percorso.
Dare senso a ciò che si vive attraverso la parola è fondamentale se non si vuol rimanere intrappolati in situazioni traumatiche.
Ho cominciato a parlare dei miei traumi.
Ho riconosciuto tali situazioni da cui mi difendevo con la memoria impermeabile.
Eppure le conseguenze di quelle situazioni di violenza psicologica, fisica, erano visibilissime dall’esterno, ma nessuno voleva guardarle. Io in primis le sminuivo perché mi avevano educata a questo.
Continuavo e continuo a vivere per gran tempo della mia vita emotiva nel passato, in quella stanza buia piena di spettri, fantasmi, scheletri, demoni.
I loro nomi sono: abuso, violenza fisica, violenza psicologica, rifiuto, distruzione, controllo.
Sono stati per anni miei amici, compagni di stanza, li avevo accanto a me, vicino a me, dentro e fuori, diventavano sempre più grandi, quanto più cresceva il senso d’impotenza.
Mi sono sentita tanto impotente da piccola. Ero così piccola che non potevo niente.
Ho faticato.
Ho guardato in faccia tanti di questi spettri. Ero terrorizzata. Eppure il senso di vita era più forte di qualsiasi mostro.
Attraverso la parola, ho aperto tanti cassetti: quello delle dinamiche familiari, dell’Edipo, della mia infanzia , della sessualità, delle relazioni, dell’affettività, dell’Amore.
Oggi ho al mio fianco una persona meravigliosa, Amore splendido lo chiamo. È uno dei doni più belli che ho ricevuto dopo la tantissima fatica che un percorso d’introspezione comporta.
È tutto quanto avessi mai desiderato.
È accoglienza, bellezza, sensibilità, Amore.
Scrivo la mia storia nella parte forse più intensa del mio percorso.
In realtà ce ne sono state tante di parti intense, tanti periodi e tanti nuclei dolorosi da affrontare.
Sono in un momento di grande stanchezza fisica e mentale, eppure continuo a combattere per la mia libertà: di pensiero, di parola.
Per essere libera di guardare, di andare oltre al mio passato. Di mettere finalmente un punto.
Voglio essere libera di lasciar andare, di lasciar fluire le mie emozioni, senza la necessità di avere l’illusione di controllare.
Voglio essere libera di essere libera.
Grazie Chiara, Matteo, Fiorella, Even, Per avermi accompagnata ed accompagnarmi lungo questo percorso.
Mary.