“Cosa parlo a fare??? Tanto non cambia niente!” riflessione testimonianza
– DCA: il senso della parola, del parlare –
Devo ammettere che da quando ho imparato a parlare sono una vera e propria macchinetta, chi mi conosce bene lo sa ☺️.
L’uso della parola è qualcosa di liberatorio.
Un tempo non lo sapevo e non potevo immaginarlo.
Dietro all’idea di parlare, personalmente, nutrivo grandi aspettative. (1)
Al di là del fatto che al tempo, quando ero malata, non mi sentivo proprio capace di parlare:
o sbottavo in momenti di rabbia furibonda e, tra urla, pianti dicevo cose irripetibili, fiumi di parole scaraventati con violenza su ogni singola persona a me vicina.
Valanghe e valanghe di parole nere per le quali poi successivamente avrei provato terribili sensi di colpa.
Parole lanciate come coltelli!
Oppure silenzio totale: IL TERRORE di esprimere il mio pensiero e il mio sentire.
D’altronde avevo paura di tutto. Paura anche della mia ombra.
Non c’era neanche qui la santa via di mezzo!
(1)…Comunque, tornando alle aspettative che nutrivo nei confronti del parlare, pensavo che comunicare dovesse per forza portare a qualche forma di risultato ESTERNO, sempre. E sottolineo esterno, non interno (interiore).
Altrimenti il fatto stesso di parlare non aveva alcun senso:
“Se io dico una cosa importante ad una persona, anzi magari proprio a quella persona a cui voglio tanto bene e con cui faccio proprio fatica a parlare per 100.000 motivi, allora la situazione “DEVE” cambiare e la persona cara “DEVE” capire, dato che ho fatto l’enorme fatica di espormi, aprirmi, altrimenti è inutile! Se così non è, mi evito la fatica e non parlo più, tantooooo……”
E così via, gli esempi possono essere davvero molti e ognuno di noi ne ha tonnellate, tanti quanti sono i “non detti” accumulati nelle nostre vite.
Nel mio percorso di cura/crescita ho impiegato parecchio tempo ad assimilare perché è tanto importante parlare, c’è voluto davvero molto lavoro, ma poi, una volta interiorizzato, è gradualmente cambiato tutto.
Provo a spiegarmi: il principio di base è sempre il medesimo: “la via d’uscita è dentro”. Parlare serve a noi, prima di tutto ed è, come spesso accade, l’aspettativa che ci castra.
Parlare è portare fuori il sentire.
Nel vuoto che sentiamo, siamo pieni di sofferenza e tutto quel sentire è necessario/fondamentale portarlo dove c’è più spazio, dove possiamo vederlo con angolazioni differenti e con occhi diversi.
Ricordo le prime volte che mi davo il permesso di parlare di cose importanti. Cavoli che fatica e che sudate! I miei interlocutori non capivano nulla, e io mi richiudevo a riccio.
“IL GIOCO AL MASSACRO DELLA MALATTIA”.
(A posteriori mi sento di poter dire che i miei interlocutori in ogni caso non potevano capire anche perché io stessa non mi capivo).
Il giudice/dittatore della malattia attuerà quel “gioco” al massacro, quello che ci porta a chiuderci e a non parlare, ci sarà sempre un qualche motivo per non parlare. Cosa bisogna fare? Scrivo la risposta con un grande sospiro: ANDARCI CONTRO!
Il grande sospiro è dovuto a te che leggi e che lo stai vivendo adesso: una fatica immane e un dolore indescrivibile. Scrivendo questo ultimo passaggio mi rendo conto che può sembrare che io stia rendendo tutto semplice, tipo come quando ci hanno suggerito (penso lo hanno fatto un po’ con tutti) di andare a fare una passeggiata in un momento di disperazione o in pieno attacco bulimico o di binge.
Ma credimi, non è così. Non sto sminuendo nulla, anzi, sto dando valore a tutto quello che tu e ognuno di noi, sente e quindi ha da dire. E’ indispensabile andar contro a quel giudice che ci porta nel muro del silenzio.
Nel tempo ho compreso l’importanza di portare all’altro quello che desidero indipendentemente dalla sua reazione, ma non una volta, bensì tutte le volte che ne sento la necessità.
Ma anche indipendentemente dal fatto che il mio interlocutore potrà cambiare o capirmi: il punto fondamentale è che io riesca ad aprirmi, quello è lo scopo, quello io posso fare.
Ed è quello che mi porto a casa con fierezza!
Di fronte a tutto ciò nessuno potrà mai dire: “Tanto non cambia niente”, perché a prescindere dall’interlocutore è già in atto un grande cambiamento, il mio.
Quei non detti che si stavano sempre piu’ infeltrendo dentro di me inquinandomi la vita, stanno uscendo e io li sto conoscendo davvero anche grazie al mio interlocutore che è in quel momento un importante strumento, dato che mi permette di portare fuori così tante emozioni.
Mi rendo conto che è difficile, perché l’aspettativa è sempre dietro l’angolo. Nel contempo però decade il fatto che “parlare non serve a niente”, perché a qualcosa serve e come.
Ci tengo a precisare che prima di arrivare a questa importante consapevolezza nel mio continuare a parlare senza demordere, ho sofferto tantissimo proprio a causa delle aspettative.
Portavo il mio sentire all’altro e non mi soffermavo affatto su di me, bensì sulla risposta dei miei interlocutori: non mantenevo un mio baricentro, era tutto sbilanciato di conseguenza l’appuntamento con l’aspettativa delusa era fisso, con frequente autodistruzione dopo.
Perché tanto la sbagliata ero io durante questi “confronti” o comunque mi facevano sentire e mi sentivo tale: il refrain della mia vita.
Quanto potere ho inconsciamente dato ai tutti intorno a me!
Successivamente avvertivo un senso di inutilità pazzesco, sensi di colpa senza fine, rabbia cattiva e mi sentivo la persona piu’ sola dell’universo: insomma un gran patimenti, ma comunque, tranne qualche periodo taciturno di demotivazione, ho voluto continuare a parlare, e ho continuato, continuato e continuato.
I tanti anni del silenzio erano finiti.
E devono finire per tutti!!! Non portano a nulla. Affogano e basta. È sempre meglio rischiare.
Spendo qualche parola sul silenzio…
Io sostengo spesso che il silenzio non comunica nulla, quello che intendo è che non può comunicare qualcosa di specifico. Il silenzio è indubbiamente una forma di comunicazione/non comunicazione, ma dall’atra parte, l’interlocutore lo interpreterà a proprio modo perché non c’è una linea guida sul come leggere il silenzio della tal persona.
Per quanto mi riguarda nei miei silenzi c’era tanto che speravo arrivasse a chi mi era vicino. NON È MAI ARRIVATO! E aggiungerei, per forza! Era tutto troppo articolato.
I SILENZI NON SONO UNA FORMA DI COMUNICAZIONE CHE NON SPIEGA, MA TU PUOI FARLO CON LA PAROLA!
Interiorizzando l’importanza dell’uso della parola intimamente, trasversalmente, un passo dopo l’altro, ho cominciato ad usarla sempre di più.
Io… che vivevo nel terrore di disturbare, chiedevo scusa anche se era qualcun altro ad urtarmi un braccio, giusto per fare un esempio, terrorizzata dalla paura di annoiare e quindi anche di essere ripetitiva: in seduta, in base al periodo che stavo vivendo, portavo sempre la stessa cosa. Prima non l’avrei fatto, pur sentendo la necessità di dover lavorare su determinate dinamiche o traumi, avrei evitato. Ma stava cambiando un po’ tutto, stavo capendo e sentendo che parlavo per me, PER ME, serviva a me!
Gli altri, e intendo tutti gli altri, potevano cambiare, non cambiare, capire oppure no; IO volevo capire e non essere più invisibile per me stessa e parlare poteva aiutarmi in questo e questo vale anche per te!
Il punto era non parlare solo una volta, ma continuare, continuare e continuare ancora.
Non posso nascondere che è stata durissima, ancor di più perché continuamente sballottata da una regione all’atra, ma anche da un continente all’altro.
Sola, sempre, sola.
In luoghi dove spesso la bulimia veniva chiamata, TENETEVI FORTE: BULEMIA.
Parliamo di tanto tempo fa.
Tornando al discorso principe…
Tenersi tutto dentro avvelena la vita, logora i rapporti, allontana da sé stessi e alimenta i rancori.
Tu parli per TE e basta!
Ci vuole un po’ di tempo, perché è tutto nuovo. Un passo per volta, occhi negli occhi con la o le persone con cui si vuol parlare e avanti. Non con i messaggi o i social, di persona, ha tutta un’altra valenza.
Ovviamente è sempre di fondamentale importanza portare avanti un percorso di cura specializzato.
Spero di essere riuscita a spiegarmi, perché da sempre urlo PARLA, PARLA, PARLATE E CI TENEVO ad andare un pochino piu’ in profondità. Chiaramente, come ogni cosa che per me ha richiesto tanto tempo di lavoro introspettivo, sarebbe da scriverci un libro ;-).