anoressia poi binge eating e poi bulimia un dolore durato una vita, affamato, divorato, ma poi compreso
anoressia poi binge eating e poi bulimia: <<Perchè proprio a me? Cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo? Perchè l’anoressia poi la bulimia poi il binge eating?>> .
Quante volte mi sono ripetuta queste domande, quante volte ho cercato una risposta… ma solo oggi, capisco che non poteva esserci, nessuno poteva darmene una, perchè quelle domande, quella sofferenza che esse racchiudevano, “alimentavano”, paradossalmente, la malattia, la nutrivano con i suoi stessi strumenti malati.
Fermarsi alla superficie, non andare al di là della parte sintomatica che mi stava dilaniando corpo e mente, continuare inconsciamente a “compiangermi”, mi riimmetteva nel circolo vizioso della malattia, dei sensi di colpa, dei sintomi, mi anestetizzava e mi allontanava da un dolore troppo grande per me da poter essere sviscerato, affrontato, vissuto interiormente, metabolizzato.
Ogni giorno si rafforzavano sempre di più tutte le angosce, gli schemi ed i rituali sintomatici che indurivano il mio comportamento, limitavano i miei movimenti, scandivano le mie giornate, aumentavano le mie paure fobiche e triplicavano le angosce, i sensi di colpa ed i vuoti interiori ed affettivi. Tutto in un tremendo vortice che soltanto, ora, capisco, quanto si auto-nutrisse di se stesso; ognuna di queste cose funge, infatti, da alibi per l’altro, da avvallo per l’altro, proprio come in un circolo vizioso.
M’illudevo di poter controllare ancora tutto, di potercela fare. Ma era un’idea malata: farcela, significava, allora, soltanto riprendere il “controllo”, ossia tornare in una fase di anoressia pura, smettere di abbuffarmi e vomitare più volte al giorno.
E questo non è stare bene. Ad oggi posso dire che ero ben lontana dalla sola idea di cosa volesse dire star bene. Essere in equilibrio con se stessi, portare avanti tutte le sfere della vita come fan tutti, “vivere” nella realtà, “comunicare” e comunicare ciò che si sente, si vuole, si vive.
Con l’andare avanti del mio percorso a MondoSole, comunque, l’idea stessa di “guarire” si è modificata; cambiano le visioni, le prospettive. Inizialmente, infatti, quando arrivi e sei completamente “fatta” di sintomo, il tuo unico pensiero è quello di eliminare il sintomo, di perder peso, e associ questo status alla guarigione. Ma ben presto, quando l’anestesia sintomatica va scemando, allora comincia a modificarsi anche l’idea di “guarigione”, capisci che c’è tanto su cui lavorare interiormente.
Cominci a capire che se anche arrivassi al peso “ideale” (che oltretutto non esiste… si vuole sempre di più), non saresti mai soddisfatto, che tutti i problemi, le angosce, le paure, le sofferenze, i traumi, le ansie, i sensi di colpa, gli schemi, le limitazioni, le difficoltà resterebbero.
Ho capito quanto abbia utilizzato il mio corpo per riversarvi tutto quel dolore che avevo dentro, per non vederlo, non sentirlo, non affrontarlo, non viverlo. Tutto quel vuoto, quella carenza d’affetto che sentivo, quella mancanza, quel bisogno d’essere accettata (ho capito, che all’origine era da mio padre) niente riusciva più a colmarlo.
Niente era più “abbastanza”. Tante le figure, le persone a cui ho disperatamente cercato di “andar bene”, di “elemosinare” affetto, ma oggi capisco che cercavo forsennatamente in chiunque gli assomigliasse per tratti, l’amore, l’approvazione, il “brava”, il “ti voglio bene”, che mio padre non è stato capace di darmi, perchè non sapeva neppure lui comunicarlo e non era “culturalmente” stato educato a questo.
Cercavo disperatamente un risarcimento che non sarebbe mai bastato, proprio come il peso che si vuole raggiungere sulla bilancia … non basta mai..nessuno andrà mai bene, perchè quella fame è insaziabile. Solo se si fa pace con quel passato, arrabbiandosi (forse non è tanto il mio caso 😉 ), parlando, interiorizzando e ancora parlandone, metabolizzando, facendo e vivendo… allora quel risarcimento non si cercherà più.
Ho imparato a uscire da me e vedere le cose da altre prospettive. Ho capito e fatte mie le modalità diverse con cui ognuno di noi, in famiglia, dava e dimostrava come sapeva, come poteva. Modalità che non avevano trovato comprensione nella mia sensibilità di bambina ma che oggi ho imparato a comprendere.
Concentrando tutta la mia attenzione su cibo, corpo, peso, sport, la mia ossessione erano diventati i sintomi, che seppur dolorosissimi, non lo erano mai quanto tutto quello che si nascondeva sotto; tutto ciò che era più difficile e che non riuscivo ad esprimere a parole, tutto quello che avevo “ingoiato” per anni, gli anni della crescita, dell’infanzia, dell’adolescenza.
Sono stata malata per molti anni, ma naturalmente la malattia covava già dentro da molto molto prima. Sono arrivata a MondoSole dopo diversi percorsi terapeutici e ricoveri in cliniche. Coperta da un cappotto nero lungo, con i capelli liscissimi che coprivano il volto, piangevo in continuazione, non dicevo una parola, avevo paura di tutto; se qualcuno mi si avvicinava temevo volesse farmi del male, non permettevo a nessuno di “entrare”, ero anestetizzata completamente, non “sentivo” niente, ero “piena”, con una depressione nera… solo col tempo sono riuscita a fidarmi, ad affidarmi, ho imparato a comunicare, ho cominciato ed imparato a parlare, ho capito cosa si nasconde dietro tutti i mille sintomi di cui ho avuto bisogno.
Dal binge, al cutter, all’anoressia, alla bulimia, tutti sono “serviti” come “stampelle”, come “filtri” per sopravvivere a dinamiche familiari, eventi traumatici che la mia personale sensibilità di bambina e ragazza non poteva “digerire” senza esserne toccata nel profondo.
Una parte fondamentale che è venuta a mancare nella mia famiglia è stata la comunicazione. In casa non si comunicava per nulla. Come ho imparato ed ho capito oggi, siamo tutti figli di figli di figli, per cui il modo in cui i miei genitori si sono comportati nei miei confronti era semplicemente la modalità che essi stessi hanno ricevuto dai loro genitori e che hanno acquisito. L’unica che conoscevano. Mio padre, come anche mia madre, infatti, non erano in grado di COMUNICARE.
Nel momento in cui mio padre non riusciva ad esprimersi con le parole, a spiegare, a comunicare, sentiva di “perdere il controllo” e si “trasformava”, diventava violento fisicamente e verbalmente; andava su tutte le furie, spesse volte per nulla e da lì cominciavano sguardi minacciosi, infuocati, urla, botte, mazze che colpivano il mio corpo, e poi silenzi interminabili. Insomma un clima di tensione spaventoso.
Il terrore nei suoi confronti cresceva ogni giorno di più ed a questo si aggiungevano le continue svalutazioni che quotidianamente mi ripeteva…. in me si alimentavano e si rafforzavano sempre di più la sensazione e la convinzione di non essere mai all’altezza, di essere “niente”, di non “valere” , di non essere mai “abbastanza”; termini che infatti nel sintomo hanno avuto grande valore: “non essere abbastanza magra” “voler essere niente”, ecc.).
Ho compreso che le critiche continue nei miei confronti, il non sentirsi mai dire un “ti voglio bene”, mai un apprezzamento, mai una dimostrazione affettuosa, non erano sinonimo di disprezzo, odio, un reale non “andar bene”, come una bimba di pochi anni qual’ero avevo interiorizzato, ma semplicemente il “linguaggio” di mio padre che non era in grado di esprimere e manifestare in modo diverso da quello che conosceva, cioè violento, aggressivo, brutale, critico, silenzioso, ciò che in realtà sentiva e pensava; una maschera protettiva, probabilmente anche la sua.
Bisognava essere sempre “intelligenti”, non mostrare emozioni, non lasciar trasparire nulla; ogni forma di emozione o sensazione mi veniva repressa, fosse rabbia, gioia, odio, gelosia, competizione; mi sono resa conto soltanto più tardi, che avevo assorbito talmente tanto le parole, le convinzioni di mio padre, che le ripetevo, senza rendermene conto, identiche, a chiunque mi capitasse… durante il percorso tremavo all’idea di scoprire che potessi essere simile per alcuni aspetti a lui, odiavo quando mi dicevano che, per certi lati, gli assomigliavo perchè avevo interiorizzato una figura completamente negativa alla quale non avrei mai voluto assomigliare…
Ma con il lavoro quì ho capito realmente il vissuto dei miei, ho scisso da me la figura dei miei, e di mio padre da me. Oggi non mi vergogno, non ho paura di ammettere e di dire che alcuni miei aspetti sono gli stessi suoi. Probabilmente ne sono anche fiera, in fondo sono sempre sua figlia. Oggi le sue parole non condizionano la mia vita, oggi ho capito quali sono i “paletti” per mantenere il mio benessere, ho capito cosa non mi fa bene ed è importante che gli strumenti che sto acquisendo e continuo ad acquisire li faccia sempre più miei.
Oggi, dopo tanta difficoltà e resistenza, ho costruito un rapporto con i miei genitori, un rapporto basato sulla comunicazione. Loro son cambiati molto indubbiamente, ma anch’io sono diversa, son cresciuta, ho modificato il mio comportamento, ho capito le dinamiche che ci hanno fatto ammalare (perchè di queste malattie è tutto il nucleo familiare che si ammala, non soltanto la persona che ne porta il sintomo evidente) ed ho cominciato pian pianino a comunicare con loro, a comunicare ed a parlare realmente, senza silenzi, forme sintomatiche, senza paure, sensi di colpa. Ogni giorno il rapporto cresce, matura e si trasforma in una relazione adulta tra genitori e figli adulti.
In questo clima di paura in cui ogni giorno mi barcamenavo, avevo dall’altra parte, una madre anaffettiva, che, anche lei per motivi storici familiari, non era stata “educata” a mostrare effusioni, non era stata “educata “all’indipendenza”. Pendeva dalle labbra di mio padre per ogni piccolo movimento, non riusciva a gestire da sola situazioni ed era piuttosto ansiosa e depressa. Per la paura verso mio padre, diventava ancora più complesso un avvicinamento nei confronti di mia madre. Non sarei mai voluta diventare come mia madre, soprattutto nel rapporto con il partner.
In questo clima di anaffettività, di mancanza di dolcezza, calore, comprensione, dialogo, fiducia, ero SOLA, chiusa in una sorta di autismo.
L’incontro con la sessualità arriva piuttosto precocemente, all’età di sei anni ed è stato un primo accadimento che ha segnato la mia vita sessuale ed affettiva, insieme a tutto il resto. Episodi a cui con difficoltà sono arrivata ad attribuire il termine di “abuso infantile” e che si ripetevano prima del pranzo, in casa, in famiglia.
Provavo repulsione, nausea, schifo verso ciò che riguardava violenza, abuso, sessualità. Mai sarei entrata in una stanza dove c’era un uomo; per ben sei mesi, nelle mie terapie da Matteo , Chiara entrava con me. Non riuscivo ad alzare lo sguardo, non riuscivo a mangiare davanti ad un uomo.
Solo col tempo ho capito tutti i vari motivi.. Ho capito, infatti, che nell’atto del mangiare era come se l’uomo che mi fosse davanti, mi vedesse nell’intimità, un’intimità che, in passato, avevano rubato, strappato, dove io non avevo avuto il controllo.
Con tutti i sintomi, anoressia, bulimia, cutter, sport compulsivo ho voluto cancellare da me ogni forma e traccia possibile di pulsione naturale, sessuale. Ho compreso, infatti, che a quegli episodi, interrottisi d’improvviso (non ho ricordo del come, perchè, quando), avevo attribuito una connotazione negativa, sporca, forse, non nel momento stesso in cui avvenivano, seppur non fossero momenti idilliaci per modalità, invasione, ecc., ma solo successivamente.
Per una bambina che viveva in un contesto familiare anaffettivo, fatto di violenze, botte, critiche, insulti, grida, quegli atteggiamenti sessuali, potevano anche rappresentare, una “parentesi” più “leggera”, “affettuosa”, nelle quali ricevevo attenzioni e, anche se in forme che non erano quelle che esattamente avrei voluto, almeno ricevevo “affetto”.
E’ stato comunque difficile accettare quest’aspetto, perchè voleva dire accettare anche una sorta di desiderio sessuale, di prime pulsioni biologiche che una bambina comincia a sentire.
Ma io, per tutta la vita, con ogni mezzo, in ogni modo, ho voluto cancellare da me ogni forma di pulsione sessuale. Ne ho compreso ad oggi le motivazioni, che proseguono con un secondo episodio che ha anch’esso fortemente “inquinato” questa sfera.
Una violenza di gruppo all’età di sedici anni. Tenuto, come il precedente abuso, segreto dentro di me. Mai avrei pensato di poterne e riuscirne a parlare. Troppa la vergogna, il senso di colpa, l’imbarazzo, il senso di sporco. E invece, ho compreso quanto liberarsi sia importante, in certi casi anche restituire al mittente. Parlarne, metabolizzare, interiorizzare, “digerire” è un processo che richiede tempi diversi a seconda della propria sensibilità.
Ho capito quali erano le motivazioni che mi portavano a vedere e percepire tutto ciò che mi circondava, oggetti, persone, animali, come sessualizzati e quindi come qualcosa di sporco, negativo, da castrare. Unito anche ad un costante lavoro quotidiano, ho imparato a tracciare linee di demarcazione tra ciò che realmente era sessuale ed il suo contrario. Proprio come avviene con la percezione del corpo.
Queste malattie (anoressia, bulimia, binge eating) ci portano ad avere una dispercezione corporea, per cui, da un’ora all’altra, ma anche da un minuto all’altro, magari perchè la nostra attenzione si è fermata su qualcosa a cui non volevano pensare, o perchè è accaduto qualcosa, o per aver incontrato qualcuno, o per mille altri motivi (cui, nei momenti di lucidità, è importante risalire per lavorarci su) , ci porta a vedere il nostro corpo gonfiarsi e sgonfiarsi come una fisarmonica, e percepirlo anche come tale. Ma oggi sappiamo che non è reale. Non è ciò che accade. E’ una nostra dispercezione, un campanello d’allarme per dirci che c’è qualcosa che in quel momento non sta andando, o che non stiamo dicendo e teniamo dentro, ecc.
Il meccanismo, quindi, è sempre lo stesso.
Dopo aver visto, compreso, elaborato, metabolizzato, interiorizzato, “digerito” tutta una serie di dinamiche familiari e non, di traumi, violenze ed abusi, e quindi dopo che una serie di paure legate alla figura maschile, di fobie ed ossessioni che mi accompagnavano nella vita quotidiana erano state snodate, e ho cominciato ad affrontare la sfera affettiva, partendo dalla figura materna, dall’anaffettività, dal mancato rapporto con mia madre, pian piano la parte emotiva più profonda, quella sempre tenuta a freno, quella da sempre “censurata” e cancellata da me stessa, hanno trovato il loro spazio e col tempo anche la loro forma. Accettare di far entrare l’ALTRO veramente dentro di me, oltrettutto, è stato un lavoro lungo, voleva dire fidarsi, affidarsi ad un altra persona, interessarsi dell’altro e non più solo di sè, condividere con l’altro e tanto altro ancora che per una persona il cui unico “altro” sono sempre stati solo i sintomi e tutto il suo mondo, non era facile.
Queste malattie contaminano tutte le sfere della vita, le distruggono tutte, da quella affettivo/sessuale, a quella relazionale, sociale, lavorativa, quella legata al denaro e tutto ciò che fà parte della vita. Reinserirle tutte pian piano e viverle davvero, realmente, con tutti gli alti e bassi della vita, facendo sempre baricentro su se stessi, tenendo sempre a mente il nostro passato, ciò che ci fà bene ed il suo contrario in base al nostro vissuto e scegliere in base a questo, quindi conoscersi a fondo, far tesoro degli strumenti acquisiti… si potrebbe avvicinare all’idea attuale di stare bene.
Giorno dopo giorno si prendono sempre di più le misure, si impara a conoscersi e a capire quali sono i propri limiti, a CONOSCERSI PROFONDAMENTE, ad evitare di ricadere in dinamiche malate che ci fanno star male, qualsiasi siano le circostanze in cui ci si possa trovare, da quelle affettive, con la nascita di una nuova relazione, a quelle lavorative, ecc.. Insomma prendersi cura di sè, è qualcosa che si fà ogni giorno, con un occhio sempre a ciò che è stato, che siamo state. Perchè è parte di noi. Quotidianamente prendiamo sempre più dimestichezza con tutto ciò che siamo oggi, che abbiamo capito, imparato e visto di noi stesse, senza sottovalutare mai i piccoli segnali, per non trascurare il nostro benessere.
Insomma, oggi sto VIVENDO per la prima volta…
Un GRAZIE infinito a Chiara e Matteo che hanno creduto nella mia crescita e nella mia rinascita…
E un grazie a tutte le ragazze ed amiche di MondoSole che hanno vissuto e vivono con me questo cammino verso la VITA!
Vale P.