Home MondoSoleESPERIENZA TESTIMONIANZA RIFLESSIONE Diritto all’appetito: una storia di emancipazione femminile non ancora avvenuta. Annabelle Hirsch.

Diritto all’appetito: una storia di emancipazione femminile non ancora avvenuta. Annabelle Hirsch.

by ChiaraSole Ciavatta

Stavo facendo delle ricerche, ho letto questo articolo non tanto tempo fa e l’ho trovato particolarmente interessante, con tanti spunti di riflessione. Chi legge può essere d’accordo oppure no, ma fa comunque sempre bene confrontarsi con pensieri nuovi e diversi. Molti concetti sono simili a quelli espressi da Naomi Wolf nella sua tesi di laurea. La tesi di quella giovane ragazza poi è diventata un libro cult a livello internazionale: “Il mito della bellezza” (The Beauty Myth) pubblicato per la prima volta in Italia nel 1991. Testo che purtroppo per molti anni non è stato disponibile e l’unico modo per poterlo leggere era andare in biblioteca e fotocopiarlo. Finalmente, quel libro è tornato nelle librerie dal 2022. ChiaraSole Ciavatta

BUONA LETTURA!

“Diritto all’appetito: una storia di emancipazione femminile non ancora avvenuta”

Il nuovo saggio di Annabelle Hirsch tratteggia i singolari punti in comune tra la storia della condizione femminile e quella dei piatti da portata, offrendo un’interessante riflessione su come il rapporto delle donne con il cibo sia stato reso volutamente complicato da una società patriarcale che usava ogni espediente possibile per domarle. Anche affamandole.

articolo/riflessione di repubblica.it di Giulia Mattioli 21.03.2025

Decenni di rigidissimi body standard hanno innegabilmente compromesso il rapporto delle donne con il proprio aspetto fisico, e in particolare con il loro peso: nonostante la breve parentesi della body positivity, essere magre è ancora considerato un valore. Ma siamo sicuri che questa ossessione per la magrezza, questo rapporto così complicato con il cibo, sia frutto solo del marketing contemporaneo? Un’interessante teoria sostiene che affamare le donne sia stato un escamotage ripetutamente utilizzato nel corso dei secoli per soggiogarle, per domarle. Ignorare la loro fame e associarla ad un sentimento di vergogna per mantenerle docili, evitare di soddisfare il loro palato per scongiurare la possibilità che, disgraziatamente, si interessassero troppo ai piaceri della carne.

Reprimere l’appetito, emblema di vitalità, per arginare la loro forza. Lo sosteneva già Virginia Woolf quando nel 1929 scriveva “Non si può pensare bene, né amare bene, né dormire bene, se non si è pranzato bene”, notando come i banchetti letterari con ospiti maschili straripassero di leccornie, mentre alle studentesse venissero serviti pasti frugali. Questa teoria viene oggi ripresa dalla giornalista Annabelle Hirsch, che la rielabora in un libro che analizza la storia dell’utensile protagonista della tavola: il piatto. Quella che la scrittrice franco tedesca racconta nel volume edito da Corbaccio e intitolato proprio Il piatto è Una storia di appetiti e di emancipazione in un oggetto quotidiano, ovvero una singolare narrazione della condizione femminile vista attraverso il rapporto delle donne con i piaceri del palato.

La tavola parla di noi

Già qualche anno fa l’autrice aveva sorpreso il pubblico letterario con un libro d’esordio che raccontava Una storia delle donne in 100 oggetti, nel quale

Disegno preso dal testo “IL PIATTO”.

ripercorreva l’evoluzione della figura femminile attraverso emblematici strumenti, opere d’arte, accessori, e persino sex toys, utilizzandoli come intrigante espediente per parlare di questioni di genere.

Questa volta l’oggetto è uno solo, ed è il piatto, inteso sia come manufatto decorativo che come utensile da portata. Il semplice piatto che contiene il cibo, e che le donne riempiono sovente per gli altri, perché servire, prendersi cura, è il loro ‘ruolo’, ma che non riempiono per loro stesse, perché dimostrarsi affamate è sempre stato considerato sconveniente.

D’altronde, da secoli ci raccontano che all’origine di tutti i mali del mondo c’è proprio l’appetito femminile: Eva, presa da una fame lussuriosa, ha addentato una mela condannando l’umanità intera alla sofferenza. Ancora oggi, l’idea di una donna che mangia ‘come un uomo’ stupisce e non sempre è socialmente apprezzata. Il marketing gioca sull’associazione tra donna e cibi sani, dietetici, non goduriosi. I social, cartina tornasole del contemporaneo, sono pieni di video con gag che mostrano ragazze che al ristorante ordinano un’insalata per poi desiderare ardentemente l’hamburger con le patatine del fidanzato. Perché se hanno fame e desiderano indugiare in un peccato di gola non lo ordinano? Cosa le trattiene? Il timore di ingrassare, certamente, ma forse anche la percezione (indotta) che mostrare fame possa risultare poco attraente.

Un po’ come è accaduto con il sesso, allontanare le donne dal cibo è servito a ridurne la consapevolezza, sostiene l’autrice ricollegandosi all’analisi di Virginia Woolf vergata sulle prime pagine dell’iconico saggio Una stanza tutta per sé. Dopo aver testimoniato la ricchezza del banchetto offerto ai letterati di Cambridge che l’avevano invitata a tenere una conferenza sulla letteratura femminile, e aver poi osservato la triste frugalità del pasto servito alle ragazze del collegio femminile, la scrittrice riflette sul fatto che “un pasto misero come quello alla fine di una giornata di lavoro provoca uno stato d’animo dubbio e indebolito… con cibi tanto infelici nello stomaco, è impossibile che scaturisca qualcosa di luminoso o di interessante”. Si domanda dunque “Quale significato possa avere che gli uomini mangino così bene e le donne così male. Accade di proposito? Per raggiungere uno scopo ben preciso?”

Un piatto per domarle

“Che forza c’è dietro il semplice servizio di porcellana con il quale abbiamo pranzato?” si chiede Virginia Woolf. È partendo proprio da un piatto da servizio, un

Citazione presa dal testo “IL PIATTO”.

manufatto ottocentesco decorato con un Arbre d’amour (Albero dell’amore), che Hirsch inizia la sua disamina sul simbolismo ricoperto dai servizi da tavola. L’autrice, che si è imbattuta in questa porcellana scorgendola nella vetrina di un antiquario parigino, descrive il suo particolare disegno: si tratta di un albero sui cui rami sono abbarbicati degli uomini che cercano di sfuggire all’ardore di un gruppo di donne, che in modi più o meno aggressivi e decisamente poco educati cercano di ‘coglierli’ come fossero frutti proibiti.

Questo tipo di piatto veniva spesso regalato alle ragazze prossime alle nozze e attraverso questa scenetta buffa le metteva in guardia, dicendo loro di non uscire dal seminato, di non comportarsi ‘male’ altrimenti il mondo (il loro mondo) sarebbe caduto in preda al caos e alla follia. “Il piatto sembra domandare con raccapriccio: e se un giorno le donne si svegliassero e si rendessero conto che l’ordine patriarcale, e il ruolo loro imposto al suo interno, non deriva affatto da una inferiorità di origine divina della donna, bensì è una spudorata invenzione di uomini assetati di potere?”, scrive Hirsch.

Il piatto inteso come utensile arriva piuttosto tardi sulle tavole delle famiglie, e inizialmente è un privilegio esclusivo dell’aristocrazia (in precedenza si mangiava da ciotole comuni, pentole, o usando pezzi di pane come supporto). È proprio dal suo esordio – avvenuto presumibilmente nelle corti mantovane del Cinquecento – che le donne iniziano ad essere sempre più osservate: “Siccome le donne, come sappiamo, in prima istanza erano chiamate ad assolvere il compito della nutrizione, era importante che fossero impeccabili, e per questo motivo da allora in poi il loro modo di mangiare fu osservato con particolare attenzione e sguardo critico…”.

Il piatto permetteva di controllare la voracità, la golosità di una donna, la quale “doveva essere abbastanza vivace da dare la vita e da nutrirla attraverso il proprio corpo, ma doveva tenere a bada la propria vivacità per non risultare molesta a nessuno. Quale modo migliore per ottenere questo risultato se non somministrandole poco cibo di qualità scadente?”

Quando il piacere è proibito

Il fatto che le donne abbiano meno fame, che provino meno piacere nel mangiare cibi sazianti e consistenti come la pasta, la carne o il burro, è una teoria che solo parzialmente si giustifica attraverso le differenze fisiche con gli uomini. Le donne dell’Ottocento o del Novecento che lavoravano probabilmente erano affamate tanto quanto i loro fratelli o mariti, mentre le nobildonne che non alzavano un dito probabilmente avevano lo stesso scarso appetito di figli e consorti ozianti. “È interessante notare come l’idea dell’inappetenza venisse diffusa insieme alla diceria secondo la quale le donne ‘per natura’ avrebbero avuto meno desiderio, se non addirittura nessuno, per il sesso”.

“Del resto ha senso”, continua Hirsch. “Il cibo e il sesso sono due momenti di piacere, chi si trattiene ostinatamente e si inibisca quando vi si dedica, probabilmente ne ricava scarsa gioia. E nel caso delle donne è giusto che sia così: i due impulsi, l’appetito per il cibo e quello per l’amore fisico, erano così strettamente legati nella testa della società sempre più puritana, che si era arrivati a credere di poter trarre dall’uno conclusioni sull’altro, vale a dire dal piatto al letto”.

Certe dicerie sono perdurate nei secoli. All’inizio del Ventesimo secolo la dottoressa Mary Wood-Allen scrisse un manuale What a young girl ought to know rivolgendosi alle madri di figlie femmine. Secondo lei si poteva capire se una ragazza si masturbava in base al suo gradimento di senape, pepe, aceto e spezie. “Il consiglio dato alle signore era di tenere le figlie adolescenti lontane da caffè, cacao, tè, carne, pane caldo, noci e uva passa, se non volevano inavvertitamente risvegliare la loro lussuria… tutti i piatti gustosi, o speziati, erano tabù. Non solo perché potevano guastare il carattere, stimolare la fantasia (sessuale) e di conseguenza condurre assai probabilmente alla pazzia… bensì anche perché si sosteneva che imbruttissero. Un aneddoto dell’epoca raccontava come Charlotte von Stein avesse perduto l’amore di Goethe perché essendo ghiotta di tè e di caffè, era diventata brutta”.

Il digiuno come atto di ribellione

“Se si pensa a quale pressione sociale e familiare si concentrasse sui piatti e a quanto fosse legata a un concetto riduttivo e deprimente di femminilità, non sorprende che molte adolescenti e giovani donne scegliessero proprio la tavola per affermare senza parole: ora basta! In che modo? Semplicemente smettendo di mangiare”: Hirsch collega molti di questi atteggiamenti repressivi ai primi casi di disturbi alimentari documentati nel Novecento. “A quanto sembra, fu in particolare la borghesia francese a essere gravemente colpita dall’anoressia, il che è abbastanza logico, se si pensa all’importanza che il cibo e la cultura alimentare avevano e hanno tuttora in quel paese”.

Ovviamente non considera l’esempio dell’anoressia come una ribellione vincente, ma l’autrice si collega alla potenza dell’atto dell’affamarsi alle proteste femminili che nel corso della storia hanno avuto come protagoniste donne digiunatrici. “Le donne che respingono il cibo riescono a perturbare l’ordine e a intimorire gli uomini almeno per un istante… [Quello dello sciopero della fame] oggi è un metodo di pressione politica ampiamente noto, ma di rado si ricorda che furono le donne a scoprire l’idea del corpo come arma politica per uscire dall’impotenza”.

La scrittrice porta diversi esempi e ricorda in particolare le suffragette, che utilizzarono numerose volte lo sciopero della fame come mezzo di protesta quando venivano detenute a causa del loro attivismo. Idearono addirittura una sorta di medaglia, “Un distintivo di metallo e stoffa a strisce viola-verdi-bianche su cui veniva segnato l’inizio e la fine del periodo di digiuno e che veniva consegnato alle suffragette la mattina del loro rilascio”.

Attraverso il rifiuto di nutrirsi, le suffragette “Ponevano il governo di fronte a una scelta impossibile: riconoscere il diritto di voto alle donne, o essere responsabili della loro morte. Si trattava a tutti gli effetti di una guerra. Una guerra combattuta con i piatti”.

Rivendicare il diritto all’appetito

Virginia Woolf non è l’unica ad aver fatto il collegamento tra cibo, piatti ed emancipazione femminile. Anche sua sorella, la pittrice Vanessa Bell, aveva individuato quel legame, e lo ha espresso dipingendo su un servizio da tavola commissionatole dallo storico dell’arte Kenenth Clark i ritratti di una serie di figure femminili del passato che troppo spesso avevano trattenuto i propri ‘appetiti’ per compiacere la società: Saffo, Emily Brontë, Caterina la Grande, e sua sorella stessa. Il servizio si chiamava Famous Women Dinner Service, e quei piatti “Non erano semplici oggetti muti, non rimanevano in disparte, atti solo a servire le pietanze. Con le teste femminili al centro di ognuno, al contrario, suggerivano quasi l’argomento della conversazione.

Costringevano la tavolata a pronunciare almeno qualche battuta e ad avere un breve scambio di idee sul tema dell’importanza della donna, tema che di norma si preferiva passare sotto silenzio”.

Alla fine del diciannovesimo secolo l’americana Elizabeth Robins Pennell scrisse un libro intitolato The Feasts of Autolycus: The Diary of a Greedy Woman. Nel testo, si domandava come mai le donne si impegnassero tanto per il (sacrosanto) diritto di voto, ma non lottassero per il diritto al piacere.

L’autrice invitava le ragazze a smettere di guardare criticamente il cibo, e di conseguenza loro stesse, e iniziare a considerarlo come una possibilità per sperimentare, per scoprire livelli e sfumature diverse di edonismo. In effetti, il femminismo degli anni Settanta porterà il dibattito sulla libertà sessuale al centro della conversazione globale, ma nessun grande movimento, ad oggi, ha lottato per la libertà di godere del cibo.

Secondo Annabelle Hirsch “Le donne potranno essere veramente libere solo quando impareranno a riconoscere il piacere e l’appetito come un loro diritto, invece di rifuggirne, vergognarsene o nasconderlo.

 

Annabelle Hirsch

Biografia

Annabelle Hirsch ha origini tedesche e francesi e ha studiato Storia dell’arte, Teatro e Filosofia a Parigi e a Monaco.

Lavora come giornalista per Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitug, ZeitOnline e diverse riviste, ha pubblicato racconti e traduzioni letterarie dal francese.

Vive fra Roma e Berlino. Oltre a Il piatto, Corbaccio ha pubblicato Una storia delle donne in 100 oggetti.

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